Tribunale di Reggio Emilia, 28 ottobre 2013, n. 1279 - Mesotelioma e decesso di una lavoratrice: amianto e responsabilità


 

 

 

n. 1279/13 Sentenza del 29.7.2013
n. 2847/08 R.G.N.R. n. 590/10 R.G.Trib.
data del deposito data irrevocabilità



TRIBUNALE DI REGGIO EMILIA
Sezione penale
REPUBBLICA ITALIANA
IN NOME DEL POPOLO ITALIANO

Il Giudice dott.ssa Cristina BERETTI in data 29 luglio 2013 ha pronunciato e pubblicato mediante lettura del dispositivo la seguente

SENTENZA


nei confronti di :


L. Mirco nato a Cadelbosco Sopra (RE) il 19.10.1922 Res. a cadelbosco Sopra via Curiel 27 — libero assente -
Assistito e difeso di fiducia dall'avv. Silvia Piccinini del foro di Reggio Emilia

RESPONSABILE CIVILE: L. spa di L. cav. Mirco assistito e difeso dall'avv. Giulio Terzi del foro di Reggio Emilia
PARTE CIVILE: Istituto nazionale per l'Assicurazione contro gli Infortuni sul Lavoro (INAIL) in persona del dott. M.F.S. assistito e difeso dall'avv. Mauro Converso.


Imputato:
del reato p. e p. dall'art. 589 2 comma c.p. perché, (quale amministratore unico della s.p.a. I. (poi L. .spa) sedente in Castelnuovo Sotto, esercente attività di fabbricazione e vendita di lastre e di manufatti in cemento amianto, datore di lavoro, per colpa, cagionava la morte della dipendente S.E.: consistendo la colpa genericamente in negligenza, imprudenza, imperizia, nonché, specificatamente, nell'avere omesso di adottare provvedimenti misure adatte, impedirono a ridurre lo sviluppo della diffusione nell'ambiente di lavoro di polveri (art. 21 dpr 303/56), nell'avere fatto effettuare ai propri dipendenti le lavorazioni pericolose ed insalubri nello stesso ambiente di lavoro in cui si effettuavano le altre (art. 19 dpr 303/56), nell'avere omesso di rendere edotti i dipendenti dei rischi specifici ai quali erano esposti per l'attività svolta e dei modi per prevenire i danni derivanti da detti rischi (art. 4 dpr 303/56), in particolare non disponendo il deposito in armadietti separati di effetti personali o di alimenti e di attrezzi da lavoro, né predisponendo aree che consentissero ai lavoratori di mangiare e bere nelle pause senza rischio di contaminazione dalla polvere di amianto, ed ancora disponendo l'effettuazione di docce per gli addetti di astio alla sbavatura nel corso dell'orario di lavoro (artt. 38-42 dpr 303/56) e nell'avere omesso di fornire i lavoratori esposti a specifici rischi di inalazioni pericolose di polveri maschere respiratorie o altri dispositivi di protezione personale (art. 387 dpr 547/55) esigendone l'utilizzo continuativo; in tal modo S. Eliana, addetta dal 24 dicembre 1962 al 31 maggio 1985 alla produzione manuale di vasche, comignoli, tubi, canne fumarie, cucce, loculi funerari comportanti la lavorazione della "sfoglia" umida di cemento amianto nonché la sbavatura rifinitura dei pezzi dopo l'essiccazione, lavorando fino al 1967 in un unico capannone insieme a coloro che impastavano, miscelandolo con il cemento dell'acqua, l'amianto versato da sacchi, in ambienti di lavoro privo di aspiratori fino al 1969 e privo di adeguati aspiratori successivamente, nonostante l'utilizzo anche del più pericoloso amianto crocidolite, addetta altresì alla pulitura delle vasche con strumenti inadeguati (mola flessibile) comportanti l'aumento dello sviluppo delle polveri di amianto, non dotata nel corso delle lavorazioni dì tuta e copricapo a perdere né di maschera antipolvere e non edotta dei rischi specifici derivanti dalla lavorazione alla quale addetta, decedeva per mesotelioma pleurico maligno epitelìomorfo diagnosticato nel settembre 2003. In Castelnuovo di Sotto il 28 ottobre 2005
Conclusioni delle parti:
Il P.M. ha chiesto la condanna dell'imputato alla pena di mesi sedici di reclusione con generiche attenuanti.
La Parte Civile ha chiesto l'affermazione della penale responsabilità dell'imputato e la sua condanna alla pena di giustizia; la condanna dell'imputato in solido con il responsabile civile al risarcimento dei danni da liquidarsi nella somma di euro 64.041,42 oltre interessi legali; in subordine la concessione di provvisionale immediatamente esecutiva; la condanna alla rifusione delle spese di costituzione e assistenza.
Il Responsabile Civile ha chiesto l'assoluzione dell'imputato.
La difesa dell'imputato ha chiesto l'assoluzione perché il fatto non sussiste, o per non avere commesso il fatto; in subordine con generiche attenuanti sentenza di n.d.p. per prescrizione: chiede il rigetto delle domande della parte civile

MOTIVAZIONE
Citato a giudizio per rispondere del reato di cui in epigrafe, l'imputato è comparso al dibattimento nel corso del quale sono stati escussi i testimoni indotti dalle parti, è stata acquisita varia documentazione, è stata disposta perizia medico legale.
Si sono costituiti parte civile S. Ada. sorella di S. E liana e l'Istituto Nazionale Infortuni sul Lavoro.
L'imputato ha risarcito la parte civile S. Ada che, di conseguenza, ha revocato la sua costituzione.
Vi è stata la citazione a giudizio del responsabile civile L. spa, quindi, le parti hanno concluso come da verbale.
Dalla complessa istruttoria espletata è emerso, in punto di fatto, quanto segue: Eliana S., dopo avere lavorato dal 1958 al 1962 ad Arbon in Svizzera, dapprima in un'azienda tessile Sartoriale e poi in un'azienda metalmeccanica come operaia addetta alle macchine operatrici, dal 24 dicembre 1962 al 31 maggio 1985 ha lavorato all'I. di Castelnuovo Sotto (oggi L. spa).
L'odierno imputato. L. Mirco, ha rivestito e riveste la qualifica di amministratore unico di I., oggi L. spa. La difesa dell'imputato ha prodotto l'atto con il quale I.. il 7 dicembre 1979, è divenuta una società per azioni. Prima del 7 dicembre la I. era una snc. La difesa ha, quindi, sostenuto che l'imputato non può rispondere dei fatti precedenti al 7 dicembre 1979.
Tale impostazione non è condivisibile. Ed infatti, "in tema di infortuni sul lavoro l'accertamento della qualità di destinatario delle norme antinfortunistiche va condotto con riferimento alle mansioni in concreto svolte e alla specifica sfera dì responsabilità attribuite" e che "prescindendo dalla riconducibilità al soggetto di una veste istituzionale all'interno di un'impresa tale qualità non può non essergli riconosciuta allorché si comporti di fatto come se l'avesse" e che "a prescindere dalla considerazione che la responsabilità in una società in nome collettivo ricade su ciascuno dei soci allorché non sia stato nominato un amministratore che abbia assunto su di sé la gestione della società e le relative responsabilità" (Cass. Sez. IV 41855/09). Che l'imputato fosse il datore di lavoro di S. Eliana non può essere messo in dubbio e nessuno lo ha mai posto in discussione; che l'imputato avesse un potere direzionale parimenti non può essere contestato e l'istruttoria ha ampiamente provato l'assunto; che l'imputato fosse socio della I. snc è dato incontroverso e non è mai stato dedotto il contrario. Il capo di imputazione qualifica L. Mirco come amministratore unico di I. spa ma ciò non significa affatto che egli debba rispondere solo per i fatti successivi alla trasformazione societaria: il capo di imputazione, all'evidenza, individua e qualifica la responsabilità dell'imputato in quanto datore di lavoro di S. Eliana e tale dato non è controverso così come tale dato era noto a L. Mirco allorché è stato citato a giudizio.
Fatta questa premessa, necessaria attesa l'obiezione difensiva sul punto, si è detto sopra che dal 24 dicembre 1962 al 31 maggio 1985 S. Eliana ha sempre lavorato per I. alla produzione di manufatti in cemento amianto con mansioni di operaia addetta alla produzione manuale di questi manufatti.
Il teste R., dirigente medico dell'aziende USL presso il SPSAL, ha riferito che la S. ha svolto presso la I. diverse mansioni (il teste ha riferito che il figlio gli aveva raccontato che per un certo periodo la madre era stata "jolly"). Ha quindi affermato che la attività prevalente della lavoratrice era quella di addetta alla produzione di vasche in serbatoi di cemento amianto. "Era una produzione che prevedeva, come dire?, il prelievo di questa sfoglia umida di materiale. Il cemento amianto è appunto una miscela di cemento e di amianto con percentuali variabili di amianto a seconda del manufatto che si deve produrre e anche questo amianto può avere delle miscele particolari, diciamo che la signora prelevava questo semilavorato, che era sfoglia di cemento amianto, e con degli appositi stampi provvedeva a sagomare il pezzo'" (v. dep. R.. B.. P., Sa., G., C.).
Dato assolutamente certo ed incontroverso è che S. Eliana nel corso della sua lunga attività professionale svolta per I., è stata esposta ad amianto, sia ad amianto crisotilo sia al più pericoloso amianto crocidolide (ed amianto blu), come l'istruttoria ha consentito di accertare (v. dep. R.).
Nell'estate 2003 S. Eliana ha iniziato ad accusare dolore alla base toracica destra, accompagnato dal versamento pleurico. Venne sottoposta ad accertamenti sanitari presso il reparto di pneumologia dell'ospedale di Reggio Emilia (venne eseguita tac al torace, toracoscopia con biopsie pleuriche multiple. PET del corpo intero).
Nel settembre 2003 S. Eliana è stata dimessa con diagnosi di mesotelioma pleurico maligno epiteliomorfo.
S. Eliana è deceduta il 28.10.2005.

***

La difesa dell'imputato e del responsabile civile, supportati dal consulente di parte dott. Lodi, hanno ampiamente contestato la certezza della diagnosi di mesotelioma pleurico epiteliomorfo. In particolare hanno ritenuto che non vi fosse certezza che la patologia diagnosticata alla S. fosse un mesotelioma in assenza di approfondimenti maggiori ed hanno avanzato il dubbio che la patologia che ha afflitto la S. potesse essere un sarcoma pleurico, patologia non asbesto correlata, perfettamente confondibile con il mesotelioma evidenziando come ì dati a disposizioni non permettessero di identificare il tumore come mesotelioma epitelioide piuttosto che sarcomatoso o bifasico. Il testimone, dott. L. L.. dirigente del reparto di pneumologia dell'arcispedale Santa Maria Nuova di Reggio Emilia che ha avuto in cura S. Eliana, dichiarato di avere redatto il certificato di malattia professionale sulla base di tutte le indagini eseguite (ecografia radiologica, TAC, PET, esame istologico delle biopsie effettuate in toracoscopia). Il testimone ha affermato che " la diagnosi è una diagnosi di certezza, un mesotelioma maligno pleurico a forma epiteliomorfa".
I medici dell'ospedale di Reggio Emilia decisero di sottoporre il caso di S. Eliana al prof. Thomas Colby della Mayo Cline di Scottsfale, uno dei maggiori esperti americani in adenocarcinoma, patologie polmonari interstiziali, cancro del polmone e fibrosi polmonare, il quale, pur dando atto della difficoltà del caso, ha concluso che l'insieme dei reperti era sufficiente per una definitiva diagnosi di mesotelioma maligno epiteliale.
Il perito d'ufficio, prof. M.S., in merito alla causa del decesso ha concluso affermando che '"sulla base della storia lavorativa, del quadro clinico all'insorgenza della malattia, della documentazione diagnostica, si può affermare con certezza che la causa che ha determinato il decesso della signora Eliana S. è stato il mesotelioma". Il consulente di parte dott. Lodi ha. come si è detto sopra, ritenuto l'impossibilità di una diagnosi differenziale tra mesotelioma ed altre forme tumorali non asbesto correlate e tra mesotelioma e sarcoma pleurico a causa della insufficienza delle indagini immunoistochimiche svolte presso l'ospedale di Reggio Emilia, il difensore del responsabile civile, nelle note prodotte, ha ritenuto che tale insufficienza non consentisse neppure di identificare il tumore come mesotelioma epitelioide piuttosto che sarcomatoso e bifasico.
La documentazione in atti dà conto del fatto che presso l'ospedale di Reggio Emilia sono state eseguite indagini immunoistochimiche. In particolare sono stati utilizzati quali marcatori la carletinina e la chitocheratina. Gli esperti del ministero della salute (nel Quaderno del ministero della salute n. 15, documento prodotto dalla difesa del responsabile civile) in merito al problema della diagnosi differenziale spiegano che il mesotelioma pleurico maligno è classificato in tre principali isotipi - epiteliale, bifasico. sarcomatoide - ; che la versatilità fenotipica è peculiare nel mesotelioma pleurico maligno ed è causa di problematiche di diagnosi differenziale diverse a seconda dell'isotipo classificativo. Dunque, come ha correttamente evidenziato il P.M.. un problema di diagnosi differenziale si pone tra mesotelioma pleurico epiteliale e carcinomi ed altre neoplasie epitelioformi; tra mesotelioma pleurico sarcomatoide e sarcomi ed altre neoplasie a cellule fusate; tra mesotelioma pleurico bifasico e neoplasie miste. Dal sopra ricordato Quaderno del Ministero della Salute emerge che. al fine di distinguere un mesotelioma epitelioide (come quello diagnosticato a S. e Liliana) e altre forme tumorali- è necessario che il pannello anche corporale includa almeno due marcatori positivi per mesotelio (Carletinina e a scelta uno tra Citocheratona, Podoplamina, WT.l) e due marcatori epiteliali (CEA. CD 15. BER EP4. MOC31. B72.3.3G8, TTF1).
Nel caso che si occupa abbiamo visto sopra che i marcatori Carletinina e Citocheratina sono stati inclusi e che, per quanto riguarda i marcatori epiteliali, sono stati inclusi il CEA e il BER EP4 (v. sul punto la perizia in atti), tutti indicati nel Quaderno del Ministero della Salute.
Può dunque dirsi che correttamente è stata svolta una diagnosi differenziale e che, sulla base di quello che l'istruttoria ha fatto emergere, può dirsi dato acquisito che la diagnosi formulata dal dottor L. di mesotelioma pleurico maligno epiteliomorfo fosse diagnosi, come ha dichiarato il testimone, certa (v. dep. L.. L. S. consulenze in atti).

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La patologia che ha colpito S. Eliana la sua causa nell'esposizione lavorativa della stessa. Nessuno ha messo in dubbio che il mesotelioma pleurico sia una patologia monofattoriale ricondotta unanimemente all'inalazione di fibre di amianto. La giurisprudenza ha sul punto più volte riconosciuto l'esistenza di una legge scientifica che pone in relazione causale probabilistica l'inalazione delle polveri d'amianto e il mesotelioma pleurico. Non vi sono nel caso in esame, elementi per poter affermare che S. Eliana durante la sua breve esperienza lavorativa in Svizzera sia entrata in contatto con amianto o sia stata esposta ad altri fattori cancerogeni alternativi all'amianto nella determinazione della malattia.
Non vi sono, al contrario, dubbi che S. Eliana abbia lavorato per oltre trent'anni a diretto contatto con l'amianto, sia ad amianto crisotilo sia al più pericoloso amianto crocidolide (ed amianto blu). Se è vero che anche l'inalazione di una piccola dose di amianto non può dirsi priva di rischio a livello teorico, è evidente come tale rischio sia concreto e certamente più grave tra le persone maggiormente esposte.

La difesa ha evidenziato come S. Eliana avesse una familiarità con patologie oncologiche (un fratello era deceduto per cancro al polmone, un altro per cancro alla tiroide ed una sorella per cancro al colon) il che porterebbe a non escludere una suscettibilità individuale. Nelle note difensive sono riportati ampi stralci degli studi del prof. Ch. secondo il quale solo individui suscettibili svilupperebbero il mesotelioma e per questi individui una dose estremamente bassa di amianto sarebbe sufficiente a provocare il mesotelioma. Tale tesi non ha trovato conferma scientifica e in ogni caso è certo che è l'esposizione ad amianto la causa del mesotelioma e che S. Eliana è stata esposta per oltre 30 anni a tale pericolosa sostanza. Non sono processualmente emerse alternative seriamente proponibili.
In processi come quello che ci occupa le tesi che si contrappongono riguardano la ricerca della legge scientifica cd. di copertura sono quelle della cd. dose killer e quella della cd. dose dipendente.
La prima tesi sostiene il rilevo esclusivo della iniziale e considerevole esposizione a fibre di amianto: una volta raggiunta la cd. dose killer o trigger dose le dosi successive sarebbero irrilevanti rispetto allo sviluppo del processo patogeno che progredisce in modo autonomo e dosi di fibre aggiuntive non incidono sul periodo di latenza. La tesi opposta sostiene che nel mesotelioma. come tutti gli altri tumori, assumono rilevanza nel processo di cancerogenesi le esposizioni successive alla prima che, cumulando la loro efficacia cancerogena a quella già attivata dalle prime fibre inalate. determinerebbero un'azione cancerogena di maggiore intensità riducendo altresì il periodo di latenza.
L'accoglimento dell'una o dell'altra tesi ha incidenza, all'evidenza, sul nesso causale: nel primo caso non rivestirebbe alcuna efficacia causale rispetto alla contrazione della malattia, l'esposizione ad asbesto conseguita all'omissione da parte del datore di lavoro delle misure di abbattimento delle polveri sul luogo di lavoro successiva all'assunzione della dose iniziale. Sussisterebbe condotta colposa ma non nesso causale tra condotta ed evento poiché il comportamento omesso non sarebbe stato in grado di impedire l'insorgenza della malattia né di incidere sul periodo di latenza.
Nel secondo caso (dose dipendenza) tutte le dosi inalate successive alla prima assumerebbero, invece, efficacia causale sia rispetto all'insorgenza della malattia che rispetto alla riduzione del periodo di latenza. Tutte le esposizioni ad amianto concorrerebbero, quindi, alla formazione della dose cumulativa. L'omissione delle cautele volte a limitare la polverosità nell'ambiente di lavoro concorrerebbe, così, ad aumentare la dose cumulativa inalata e, di conseguenza, il datore di lavoro con tale comportamento colposo contribuirebbe alla contrazione della malattia o alla riduzione del periodo di latenza tra prima esposizione e diagnosi di mesotelioma. Il perito d'ufficio prof. S., aderisce alla seconda tesi.
In particolare il perito evidenziato come "le fibre e le fibrille di amianto possono penetrare nelle cellule polmonari o nel mesotelio e alterare le strutture cellulari ed interferire con il regolare processo di divisione cellulare come emerge dalla formazione di cellule giganti multinucleate (Malorni et altri. 1990). Gli stessi autori hanno riportato che il crisotilo, penetrato nella cellula, entra nel nucleo introducendo alterazioni di cromosomi durante la fase di divisione cellulare. Chrug et al.(1989) hanno stimato che le fibre corte hanno un effetto fibrogenico superiore a quanto studi precedenti condotti su ratti avevano evidenziato. L'asbesto è inoltre in grado di produrre vari tipi di radicali ossigenati (ROS) i quali, se si formano in prossimità del DNA. possono reagire con esso determinando rotture e modificazioni della sequenza delle basi nucleotidiche (An Xu et al. 1999). Le capacità quindi dell'asbesto di essere un agente clastogenetìco (DNA reattivo) ed anche tossico (con conseguente aumento della proliferazione cellulare rigenerativa), lo rendono di fatto un agente cancerogeno completo. Il fatto che l'azione cancerogena dell'amianto, al pari di altri agenti cancerogeni forti come il cloruro di vinile, il benzene, l'alfatossina, le radiazioni ionizzanti, richiedano un lungo periodo di latenza (20-30 anni) per esprimersi, indica che devono verificarsi stocasticamente molteplici errori genetici di una singola cellula prima che da essa possa iniziare quel processo irreversibile clinicamente evidente (Cohen & Arnold 2011). Quando questo evento avrà luogo nei 20-30 anni di latenza e quanto tempo sarà richiesto perché si arrivi a un tumore clinicamente evidente, è una sfida conoscitiva che continua ancora oggi. I meccanismi proposti per la cancerogenicità delle fibre attengono sia le fasi iniziali (iniziazione) che alle fasi finali (promozione). In questo quadro, le fibre possono danneggiare direttamente o indirettamente le cellule mesoteliali, anche con meccanismi di tipo genotossico, e/o stimolarne la proliferazione. La stimolazione cronica delle proliferazione di cellule mesoteliali può portare ad una accumulazione di mutazioni spontanee, che conferiscono vantaggi proliferativi a popolazioni cellulari preneoplastiche. Fibre persistenti nel connettivo submesoteliale possono innescare il rilascio cronico di chitochine e fattori di crescita da parte di macrofagi attivati, determinando uno stimolo continuativo alla crescita cellulare. In questo quadro, devono essere considerati efficaci gli effetti cumulativi della persistenza nei tempo delle esposizioni. In particolari, esposizione anche successive a quelle iniziali, hanno un valore contributivo riguardo allo sviluppo del tumore.'" "E' un dato consolidato e condiviso dalla comunità scientifica che nel processo di cancerogenesi (chimica, fisica e biologica) l'entità dell'esposizione (intesa come dose per la durata dell'esposizione) è in relazione alla eventualità (rischio) di sviluppo della neoplasia: più alta è l'esposizione, maggiore è il rischio di insorgenza della neoplasia. L'avvio del processo neoplastico è causato dalla trasformazione di una cellula normale in cellula maligna, il che avviene durante la duplicazione del DNA: più alta è l'esposizione cumulativa (che può risultare ad esempio ad alta esposizione per un breve periodo o bassa esposizione per un lungo periodo), maggiore è la probabilità che si verifichi la trasformazione della cellula normale in cellula neoplastica maligna. Il danno cellulare inducibile in una singola cellula non ha una soglia conosciuta (anche se l'esistenza di quest'ultima non può essere esclusa) ed è di tipo stocastico, cioè probabilistico. L'andatura stocastica del processo di cancerogenesi rende difficoltosa la stima della durata del processo di trasformazione neoplastìca; quest'ultimo si colloca all'interno del tempo di latenza (cioè del periodo intercorrente tra l'inizio dell'esposizione e diagnosi clinica della neoplasia). La durata della latenza nei sistemi sperimentali considerati dipende dal livello dell'esposizione oltre che da altri fattori quali l'età all'inizio dell'esposizione, il sesso, la predisposizione, l'esposizione concomitante pregressa ad altri agenti cancerogeni. Tali fattori intervengono nelle varie fasi del processo neoplastico, dalla induzione alla promozione e progressione. Markers utili per differenziare le varie fasi del processo neoplastico a tutt'oggi non sono disponibili. Studi sperimentali condotti nei laboratori dell'istituto Ramazzini per valutare la cancerogenicità di fibre di amianto modificato iniettate a varie dosi per via intraperitoneale in topi Swiss, maschi e femmine geneticamente omogenei, hanno evidenziato una eretta relazione tra la dose somministrata e la durata della latenza, oltre che delle incidenza di mesoteliomi'".
Il perito ha poi rilevato come una relazione dose-risposta tra livello di esposizione ad amianto ed insorgenza dei mesotelioma sia stata inizialmente descritta nei lavoratori del settore tessile (Newhause 1969 e Newhause & Berry 1979. Seidman e altri nel 1979) evidenziavano come al decrescere della dose è richiesto un tempo più lungo perché si manifesti l'esperienza avversa della mortalità. Se non è possibile evitare del tutto l'esposizione ad agenti cancerogeni la riduzione dell'esposizione può sia differire il verificarsi di effetti avversi, sia ridurre la frequenza del loro accadimento. Altri autori hanno ripreso il tema descrivendo la relazione tra esposizione cumulativa all'amianto e mortalità per mesotelioma segnalando significative relazioni tra rischio di mesotelioma e concentrazioni di fibre di amianto nel tessuto polmonare fra i minatoli di crocidolite in Australia. Il perito ha ulteriormente ricordato ulteriori contributi scientifici che dimostrano una relazione dose-risposta già a livelli di esposizione nell'ordine di O.5ff/ml/anni e che il rischio aumenta con l'aumentare della dose cumulativa a parure da una soglia molto bassa ma tuttora non definibile (si veda in dettaglio pgg. 20 e ss. della perizia in atti).
Il perito ha quindi evidenziato come l'esposizione prolungata da amianto non è condizione necessaria per l'insorgenza del mesotelioma ma che quando ciò si verifica riveste un ruolo eziologico dovuto sia all'aumento della probabilità che si verifichi la neoplasia sia all'accertamento dei processi che lo determinano.
Il consulente della difesa, dott. Lo., sul punto all'udienza del 26 giugno 2012 a domanda se la probabilità di contrazione della malattia sia correlata alla quantità di fibre inalate ha così risposto "ma io direi che questo non ... il dato sicuramente è che è correlato all'inizio dell'esposizione, cioè più precoce è l'esposizione più è probabile che insorga la malattia tenendo conto della suscettibilità, tenendo conto di questo fattore e successive esposizioni sembrano non avere una effettiva importanza nel momento in cui si è scatenato il meccanismo di danno del DNA. nel senso che queste fibre provocano la formazione dei cosiddetti radicali liberi e sono sostanze che sono in grado di agire sulle nostre cellule e sul nostro Dna una volta che si è scatenato questo meccanismo il processo parte. Ecco, su questa importanza studi anche di due o tre anni fa, pubblicati l'anno scorso, attestano e documentano questo, e su questo ci sono dati voglio dire ... uno dei ultimi studi è stato pubblicato su una persona che ha sviluppato il mesotelioma per avere lavorato tre mesi all'anno per tre anni e quindi diciamo nove mesi da studente a 16 anni, durante i periodi estivi in un ambiente dove c'era amianto e quindi ha avuto un'unica esposizione per questi tre mesi per tre anni successivi e quindi nove mesi in tutto con una esposizione diciamo modesta perché non è che fosse un coinbentatore o quanto altro, ebbene ha sviluppato dopo i vent'anni o 25 anni di latenza, ha sviluppato il mesotelioma solo per essere stato esposto a 16 anni a questi tre mesi o nove mesi se vogliamo complessivamente. Per cui sicuramente questo conferma in modo chiaro l'importanza dell'età d'inizio della prima esposizione e il fatto che dopo ci sia o non ci sia altra esposizione più importante quantitativamente o meno ha un rilievo ininfluente". Ritiene questo giudice che le argomentazioni offerte sul punto dal perito d'ufficio siano nettamente più convincenti di quelle offerte dal consulente di parte. Non va dimenticato che il perito nominato ha personalmente svolto diversi studi sperimentali sui ratti essendo direttore del noto istituto Ramazzini e. dunque, ha potuto personalmente constatare la bontà della tesi sostenuta.
La giurisprudenza ha, peraltro, più volte affermato la sussistenza di un rapporto esponenziale tra dose di cancerogeno assorbita e risposta tumorale. Se aumenta la dose di cancerogeno maggiore è l'incidenza dei tumori che derivano dalla esposizione e minore è la durata della latenza, il che altro non significa che aumento degli anni di vita perduti o per converso, anticipazione della morte (v. Cass. Sez. IV 988/2002: Cass. Sez IV n. 22165/2008: sez IV 33311/12).
Esiste dunque nesso di causalità tra omessa adozione da parte del datore di lavoro di idonee misure di protezione e decesso del lavoratore in conseguenza della protratta esposizione alle polveri di amianto quando, pur non essendo possibile determinare l'esatto momento di insorgenza della malattia, deve ritenersi prevedibile che la condotta doverosa avrebbe potuto incidere positivamente anche solo sul tempo di latenza (che nel caso dei mesotelioma è particolarmente lungo potendo arrivare anche a 40 anni). Nel caso che ci occupa deve evidenziarsi come l'espletata istruttoria abbia consentito di fornire la prova delle condizioni di lavoro nello stabilimento I. far tempo dal 1976 in poi (per il periodo precedente non sono disponibili indagini ambientali). Le indagini eseguite dagli organi preposti hanno evidenziato, in particolare, che l'operazione di sbavatura e rifinitura dei pezzi speciali, mansione alla quale era addetta S. Eliana, era quella maggiormente a rischio di esposizione. Il 12 novembre 1976 (all. 4.1) il Consorzio Intercomunale per i Servizi Sanitari ha evidenziato come i risultati dei prelievi effettuati "sono molto elevati all'impasto per i pezzi speciali decisamente inferiori negli altri punti di prelievo. Alla luce delle considerazioni più sopra fatte e tenendo presente che le fibre contate si riferiscono ai vari tipi di amianto utilizzati, blu compreso, non si possono considerare prive di rischio le lavorazioni diverse dall'impasto per i pezzi speciali";
nell'ottobre 1982 l'unità sanitaria locale n. 9 (all. 8.3) dà conto del fatto che in fabbrica giungono sacchi di amianto (crisotilo e crocidolite) e che gli operatori provvedono allo svuotamento dei sacchi in molazze dove l'amianto viene frantumato. "Si procede quindi all'impasto di cemento amianto con acqua e quindi alla formatura di tubi, canne, lastre. manicotti, vasche, camini, tra i tipi di amianto utilizzato è presente l'amianto blu". Gli ispettori, al termine della loro visita, formularono alcune prescrizioni ovvero: eliminazione delle operazioni di pulizia dei pavimenti delle macchine mediante scope. divieto di uso di aria compressa: necessità di dotare lo stabilimento di mezzi di pulizia aspiranti sia per la pulizia dei banchi di lavoro che per i pavimenti; necessità che le operazioni di limatura, sbavatura, raschiatura e in generale di rifinitura debbano essere effettuate su banchi aspiranti e con manufatto bagnato; necessità di non consumare i pasti sul luogo di lavoro, di cambiare gli abiti all'uscita dal posto di lavoro; di avere in dotazione un doppio armadietto; necessità che qualunque movimentazione o trasporto di amianto nel processo produttivo avvenga a ciclo chiuso e con recipienti a tenuta stagna; necessità di rivedere il sistema di carico d'apertura dei sacchi di amianto sostituendolo con un sistema di carico ad apertura automatica senza intervento manuale; necessità di sostituire l'attuale impianto di abbattimento polveri con altro impianto a pulizia automatica delle maniche e al recupero automatico delle polveri.
A seguito degli accessi del 2 e 3 dicembre 1982 sono state contestate violazioni al dpr 1124/65 evidenziando come non tutti i lavoratori fossero stati sottoposti alla visita medica periodica e alla radiografia del torace (all. 5.1b).
A seguito delle rilevazioni ambientali eseguite nel periodo compreso tra il settembre 1983 e il maggio 1984 dalla U.S.L. con riferimento al lavoro di rifinitura dei camini, di gomiti, delle vasche - ovvero la mansione svolta da S. Eliana - è stato osservato che l'azienda deve adottare i provvedimenti idonei ad impedire o a ridurre lo sviluppo e la diffusione delle polveri, in particolare si rileva la necessità di concentrare l'aspirazione sulle due sezioni del banco di sbavatura, la necessità di abbattere le polveri contenute nell'aria prelevata dal banco di sbavatura ricorrendo a idoneo sistema di infiltrazione attesa la inefficacia di quello attualmente esistente; la necessità che le pulizie della zona circostante al banco di sbavatura avvenga esclusivamente con mezzo aspirante poiché il sistema adottato di pulire con scopa e di asportare il materiale con pulizia meccanica a spazzola rotante è da considerare inidoneo. Si rileva la necessità che i lavoratori addetti alla sbavatura dei camini e delle vasche debbano essere dotati e debbano utilizzare durante il lavoro una tuta o un camice a perdere nonché un copricapo (all. 9.4).
In relazione a tutto lo stabilimento viene prescritto che ogni lavoratore impiegato nella produzione di cemento amianto debba essere dotato di tuta copricapo e all'occorrenza di grembiuli e di guanti di buona qualità, che tali indumenti devono essere utilizzati solo in azienda e devono essere conservati in un armadietto distinto da quello usato per riporre il vestiario personale non di fabbrica; che gli armadietti devono essere collocati esclusivamente in locali ad uso spogliatoio; che i lavoratori devono usare i mezzi di protezione e devono scrupolosamente osservare le norme igieniche individuali; che le pulizie dei locali di lavoro deve essere fatta fuori dall'orario di lavoro mediante lavaggio o impiego di mezzi aspiranti.
Le rilevazioni ambientali effettuate dagli organi preposti a far tempo dal 1976 in poi danno, dunque, conto di quelle che erano le condizioni degli ambienti di lavoro e delle osservazioni che gli organi ispettivi hanno ritenuto di effettuare. Indagini precedenti al 1976 non sono disponibili ma è del tutto verosimile che le condizioni di lavoro non fossero molto dissimili da quelle sopra rappresentate anzi, è lecito presumere che le stesse fossero peggiori posto che fino al 1967 l'ambiente di lavoro, come l'istruttoria ha permesso di accertare, consisteva in un unico grande capannone nel quale era collocata anche la zona impasto in cui i sacchi di amianto venivano miscelati manualmente al cemento e all'acqua.
Le indagini successive ai 1985, epoca di pensionamento di S. Eliana, dimostrano la presenza di fibre di amianto (all. 8.9) anche in concentrazioni rilevanti e tale situazione è confermata dalle indagini commissionate dalla stessa azienda I. all'istituto di medicina del lavoro dell'Università di Modena, eseguita tra giugno e ottobre 1986 e che documenta come le situazioni più a rischio per i lavoratori siano state rilevate durante la produzione di vasche serbatoio ed in particolare durante le operazioni di sbavatura (all. 8.7 e 9.10).
Nel corso del procedimento sono stati escussi numerosi testimoni molti dei quali hanno lavorato o lavorano presso la società dell'imputato L. Mirco. C. Michele - che ha lavorato dal 1968 al 1984 - . DM. L. — che ha lavorato dal 1971 al 1994 -, L.L. - che ha lavorato dal 1972 al 1994 -, hanno riferito che guanti e mascherine non esistevano e che tali strumenti protettivi sono stati introdotti nei primi anni 80; che per smaltire le polveri non vi erano sistemi particolari ma ognuno al termine del lavoro puliva il suo pezzo con la scopa; non vi erano aspiratori; le macchine aspiratrici erano state introdotte negli anni 90 così come le lavatrici; durante la pausa pranzo alcuni mangiavano in cortile altri all'interno del capannone a loro discrezione; i lavoratori erano dotati di un grembiule di stoffa che veniva lavato sempre a casa.
Le deposizioni di questi testimoni sono perfettamente in linea con i risultati delle attività ispettive sopra ricordate ed è questa la ragione per la quale non può essere dato alcun credito alle affermazioni dei testi B. R.. Sa. Denis, M. Gemma. laddove hanno riferito che l'azienda era dotata di aspiratori, di macchine per la pulizia, di tute, di docce, di lavatrici, di mascherine. Quanto riferito sul punto dai testi B. e Sa., che hanno iniziato a lavorare agli inizi degli anni 60, è assai generico poiché i testimoni non hanno collocato precisamente nel tempo le circostanze riferite e si pone in contrasto con gli esiti delle attività ispettive; quanto riferito dagli altri testimoni, dipendenti a far tempo dai primi anni 80, non sposta i termini del problema perché si è visto che guanti e mascherine sono stati introdotti nei primi anni 80 (teste C. DM.) e sistemi aspiranti intorno agli anni 90 (teste L.). E' evidente come sia diverso collocare l'introduzione di sistemi aspiranti negli anni 60 piuttosto che negli anni 80 o in anni successivi. Le deposizioni devono, quindi, essere lette e valutate alla luce dei risultati delle attività ispettive sopra brevemente ricordate. Si osserva, con riguardo ai risultati delle attività ispettive, che nessun rilievo ha il fatto che, come rilevato dalla difesa, non vi sia alcuna prova che le prescrizioni contenute nei verbali di ispezione siano state portate a conoscenza dell'imputato. La giurisprudenza da tempo e in modo costante insegna che il datore di lavoro è tenuto in quanto tale all'osservanza della normativa ed è tenuto ad adottare tutto quanto necessario per l'abbattimento delle polveri e per prevenire i rischi conseguenti alla inalazione delle stesse indipendentemente dai sopralluoghi effettuati dagli organi preposti. Non può ritenersi, infatti, che le conquiste della scienza e della tecnica nel settore debbano essere portare a conoscenza del datore di lavoro dagli organi preposti al controllo del rispetto della legge in tema di infortuni e di malattie professionali. Se è compito proprio degli organi di controllo non solo accertare se la legge sia stata applicata, ma anche indicare all'imprenditore quali siano, in quel momento, le frontiere cui si siano spinte, in materia di infortuni e di malattia professionali, la scienza e la tecnica o l'esperienza di altre aziende del settore, è altrettanto certo che, ove quegli organi non forniscano quelle indicazioni per una qualsiasi delle ipotizzabili ragioni, non per questo il datore di lavoro è esonerato da responsabilità se è venuto meno al suo dovere/obbligo giuridico di aggiornarsi sulle tecniche atte a prevenire infortuni o malattie professionali. Tale obbligo giuridico è imposto al datore di lavoro dalla legge dall'articolo 2087 cc, norma di chiusura secondo la quale "l'imprenditore è tenuto ad adottare nell'esercìzio dell'impresa le misuri; che. secondo la particolarità del lavoro, l'esperienza e la tecnica, sono necessarie a tutelare la integrità fisica e la personalità morale dei prestatori di lavoro. Sul datore di lavoro incombe, infatti, un preciso onere di aggiornamento per individuare caso per caso le misure da adottare nel caso concreto. L'eventuale inerzia degli organi ispettivi o il fatto che le prescrizioni non siano state portate a conoscenza del datore di lavoro non "libera" quest'ultimo da responsabilità poiché l'adempimento del dovere di sicurezza è proprio del datore dì lavoro in considerazione della finalità alla quale la normativa antinfortunistica tende, ovvero la tutela della salute e della sicurezza dei lavoratori'".
La difesa sia dell'imputato che del responsabile civile ha evidenziato come sin dal 1800 si sia diffuso intensamente l'utilizzo dell'amianto, materiale indistruttibile, versatile, impermeabile al freddo e al calore, facilmente reperibile, di facile lavorazione. Le conoscenze sulle patologie correlate all'amianto per lunghi anni sono state incerte e solo a partire dagli anni 60 la comunità scientifica ha confermato l'esistenza di effetti cancerogeni legati ai suo utilizzo. La penetrazione del dato scientifico nel contesto civile e industriale è stato lento e scarso. Lo Stato nulla avrebbe fatto per disciplinare il fenomeno e la normativa esistente (dpr 303/56, art. 2087 cc. ecc.) sarebbe del tutto inidonea ad avere "funzione ed efficacia prevenzionale dal rischio amianto". Lo Stato latitante "nel normare la pericolosità dell'amianto" continuava a prevederne e prescriverne l'applicazione per usi industriali. L'imputato avrebbe osservato tutte le disposizioni di legge acquistando respiratori antipolvere (fatture del 1968), armadietti (fatture del 1969). motospazzatrice (fattura del 1973 e 1979). lavatrici (fattura del 1979). lavapavimenti, impianto di depurazione., impianto di aspirazione, impianto aprisacco, trasportatore a nastro (fatture degli anni 1980/1981). Secondo la prospettazione difensiva le analisi ambientali effettuate avrebbero dimostrato che all'interno dello stabilimento i valori di fibre di asbesto aereodisperse sarebbero state molto basse e che nel caso non si sarebbe potuta evitare la contrazione del mesotelioma pleurico non esistendo alcuna valida ed efficace protezione individuale che metta al riparo da tale grave patologia
Le obiezioni della difesa non tengono conto del fatto che il nostro sistema legislativo prevedeva e prevede specifiche norme a tutela dei lavoratori dal rischio amianto (asbestosi e tumore polmonare). Ed infatti: l'art. 17 R.D. 530/1927 prevedeva che in tutti i lavori nei quali vi è presenza di gas irrespirabili o tossici, odori fumi ... o polveri di qualunque specie il datore di lavoro ha il dovere di adottare tutti i provvedimenti atti ad impedirne o ridurne per quanto possibile lo sviluppo e la diffusione nell'ambiente ove lavorano gli operai. L'aspirazione dei gas, vapori, odori, fumo o polveri deve farsi per quanto possibile immediatamente vicino ai luogo ove si producono: L'art. 22 R.D. 530/1927 imponeva il datore di lavoro di mantenere i locali puliti per quanto possibile fuori del l'orario di lavoro in modo da ridurre al minimo il sollevamento delle polveri nell'atmosfera, oppure mediante aspiratori:
- gli artt. 28, 29, 30 R.D. 530/1927 prevedevano per gli ambienti polverosi la necessità di un sufficiente numero di bagni messi a disposizione dei lavoratori per liberarsi dalle polveri al termine del lavoro, di refettori non polverosi facendo esplicito divieto di consumare il pasto nei locali destinati alla lavorazione e spogliatoi dove potersi togliere gli abiti da lavoro prima di andare a casa:
l'art. 2087 cc. è considerata, come detto sopra, norma di chiusura estensibile a tutte le situazioni non espressamente considerate e valutate dal legislatore. Tale norma laddove prevede l'obbligo dell'imprenditore di tutelare l'integrità psicofisica dei dipendenti impone l'adozione di tutte le misure atte, secondo le comuni tecniche di sicurezza, a preservare i lavoratori da qualsivoglia lesione nell'ambiente o in costanza di lavoro. Gli obblighi imposti dalla norma in tema di tutela delle condizioni di lavoro si riferiscono non solo alle attrezzature, ai macchinari, ai servizi che il datore di lavoro fornisce ma anche all'ambiente di lavoro in relazione al quale le misure e le cautele da adottarsi dall'imprenditore devono riguardare sia i rischi propri di quell'ambiente sia di quelli derivanti dall'azione di fattori ad esso esterni e inerenti alla località in cui tale ambiente è poste;
- la L. 455/1943 (modificata dal dpr 648/56) estendeva l'assicurazione obbligatoria contro le malattie professionali all'asbestosi a dimostrazione del fatto che già nel 1943 il rischio asbestosi per i lavori esposti all'amianto era dato scientifico acquisito. All'art. 4 si leggeva che per asbestosi si deve intendere una fibrosi polmonare provocata da inalazioni di polvere di amianto che si manifesta con presenza negli alveoli, nei bronchioli e nel connettivo interstiziale di corpuscoli dell'asbestosi con tracheobronchite, enfisema e che all'esame radiologico si presenta con velatura del campo polmonare o con striature di intrecci reticolari più o meno intensi, maggiormente diffusi alle basi. L'art. 5 imponeva al datore di lavoro di adottare un sistema di prevenzione sanitaria prescrivendo che i lavoratori venissero sottoposti a visite successive periodiche e che il risultato di tali visite mediche fosse notificato al datore di lavoro e al lavoratore. L'art. 7 prevedeva l'ipotesi di morte come conseguenza dell'asbestosi e l'art. 10 prevedeva per ragioni profilattiche l'allontanamento dei lavoratore affetto da asbestosi dalla lavorazione nella quale ha contratto la malattia.
Già dagli anni 40, dunque, il datore di lavoro era perfettamente informato sul rischio a cui erano esposti lavoratori a contatto con l'amianto e certamente non poteva ignorare la necessità di adottare le misure di prevenzione specifiche.
L'art. 377 d.p.r 547/55 richiedeva che i mezzi di protezione fossero idonei, resistenti e mantenuti in buono stato di conservazione;
- L'art. 387 d.p.r 547/55 imponeva che i lavoratori esposti specifici rischi di inalazioni pericolose di gas. polveri o fumi nocivi indossassero maschere respiratorie o altri dispositivi idonei che dovevano essere conservati lo guardava poco, facilmente accessibile e noto al personale;
- L'art. 4 d.p.r 303/56 disciplina l'obbligo del datore di lavoro di adoperarsi su vari livelli per garantire concretamente efficacemente la salute dei lavoratori adeguando l'ambiente di lavoro alle misure tecniche preventive conosciute secondo la migliore scienza ed esperienza in un determinato momento storico, sia informando i lavoratori sui rischi ai quali sono esposti (in modo da stimolarli a partecipare attivamente consapevolmente alla prevenzione) sia fornendo loro i mezzi idonei per mettere in atto le cautele predisposte sia, infine vigilando sulla loro osservanza e adottando misure repressive nel caso di mancato rispetto delle stesse;
- L'art. 21 d.p.r 303/56 conteneva un'ampia e dettagliata disciplina, vigente all'epoca delle condotte in contestazione, che abbraccia ogni aspetto anche di tipo organizzativo relativo alla prevenzione dei rischi conseguenti al contatto con le polveri. La stessa legge informava il datore di lavoro sulla pericolosità delle elaborazioni che provocavano la dispersione di polveri fornendo indicazioni di tipo tecnico per ovviare a tale inconveniente ed esortando i destinatari della norma ad adottare procedimenti di lavorazione ad umido e ad utilizzare aspiratori. Il legislatore sottolineava l'importanza dei mezzi personali di protezione mettendo però in evidenza la loro funzione rafforzativo delle misure tecniche adottate a livello strutturale nelle aziende escludendo nella funzione meramente sostitutiva. Sul punto si osserva che la giurisprudenza ha più volte ribadito che il datore di lavoro per essere esente da responsabilità non basta che dimostri di avere adottato gli accorgimenti tecnici previsti dalla legge (nel nostro caso aspiratori o mascherine) disinteressandosi della qualità degli stessi ma è necessario che tali misure fossero in concreto idonee impedire o ridurre la diffusione delle polveri per quanto è possibile secondo la migliore scienza ed esperienza in un determinato momento storico. Il datore di lavoro è parimenti chiamato a valutare l'efficacia delle misure tecniche adottato e laddove avesse verificato che l'installazione di aspiratori non era di per sé sufficiente avrebbe dovuto preoccuparsi di garantire il ricambio dell'aria nell'ambiente di lavoro e avrebbe dovuto assicurarsi che i lavoratori indossassero le mascherine in modo da garantire un effetto sinergico di tutte le misure di prevenzione conosciute (v. Cass. Sez III 5538/85; sez IV 8449/85; sez III 12520/85; sez IV 10730/91).
Il d.p.r. 1124/65 reca disposizioni speciali per la silicosi e l'asbestosi e la tabella allegata riporta l'elenco delle lavorazioni con cui era obbligatoria l'assicurazione contro l'asbestosi e precisamente, per quanto qui di interesse, lavori nelle manifatture e lavori che comportano impiego e applicazioni di amianto e di materiali che lo contengono o che comunque espongono a inalazione di polveri di amianto;
- Il D.M. 18.4.1973 - sost. con D.M. 27.4.2004 - individuava le patologie per cui era obbligatoria la denuncia contro gli infortuni sul lavoro e le malattie professionali e tra queste era compresa la asbestosi associata o meno a tubercolosi o a cancro polmonare.
Sin dal 1973, dunque, la legislazione aveva recepito che l'esposizione all'amianto può anche provocare il cancro.
- Il d.p.r. 146/75 prevedeva nella tabella A gruppo IV p. 4 che la corresponsione dell'indennità di rischio era dovuta anche per prestazioni di lavoro che comportano esposizione dirette continua a polveri industriali silicee e di amianto e loro composti o derivati;
- la L. 780/75 - che ha modificato l'art. 153 L. 1124/56 - prevede che nel caso di lavorazioni elencate nella tabella il datore di lavoro è tenuto a corrispondere un premio supplementare nell'ipotesi che la concentrazione in aria di amianto sia tale da determinare il rischio senza specificare la natura del rischio (asbestosi o neoplasia) e senza stabilire quale sia il valore dì concentrazione che lo determina;
- il d.p.r. 915/82 immette l'amianto tra le sostanze da considerarsi pericolose anche i fini ambientali e ne regolamenta sia il trasporto che la collocazione in discarica.
È dunque evidente come, alla luce di tutta la normativa sopra illustrata, copiosa e risalente, il datore di lavoro che operava negli anni 60 e 70, data la nota pericolosità delle polveri di amianto, non poteva ignorare quelle misure minime di cautela, quali i respiratori, le mascherine, la pulizia dei locali, la lavorazione ad umido che erano già state previste e disciplinate sin dagli anni 30.
Tale normativa imponeva l'adozione di vari e coordinati livelli di prevenzione, come evidenziato dal tribunale di Torino nella nota sentenza "'Eternit" (Trib. Torino. 13 febbraio 2012, Pres. Casalbore, imp. S. e altro). In particolare:
1) prevenzione primaria comprendente la prevenzione tecnica e prevenzione individuale. Per prevenzione tecnica si intende l'insieme delle cautele di tipo strutturale da adottarsi in un'azienda per scongiurare il rischio di malattie professionali. Misure che devono esistere all'inizio dell'attività al fine di poter realizzare lo scopo di prevenzione a cui sono finalizzate così che la loro adozione dopo un certo periodo di tempo, nonostante la loro conoscenza in epoca anteriore, non esonera l'imprenditore da responsabilità. Non era però sufficiente che il datore di lavoro installasse mezzi di aspirazione ma era necessario che tali mezzi fossero in concreto idonei in relazione al fine per cui erano stati posti in essere. Per prevenzione individuale sì intendono i dispositivi di sicurezza personali quali maschere respiratorie, guanti, abiti da lavoro. Il datore di lavoro ha l'obbligo di tutelare la salute dei suoi dipendenti che operano in particolari ambienti mediante adozione di mezzi di protezione diretti a difendere l'aria da prodotti nocivi e dalle polveri. Tale obbligo non si esaurisce apprestando impianti di aspirazione localizzati il più vicino possibile alle fonti di produzione degli agenti nocivi o delle polveri laddove tali misure di difesa risultassero insufficienti (cioè non idonee ad assicurare la depurazione complessiva dell'aria e a consentire una buona respirazione dei lavoratori) poiché in tali casi l'art. 9 d.p.r. 303/56 imponeva il ricambio generale dell'aria. Gli strumenti di protezione individuali dovevano essere idonei, a disposizione dei lavoratori, correttamente conservati correttamente utilizzati. Era obbligo del datore di lavoro quello di informare il lavoratore sul loro corretto uso e quello di vigilare sui loro effettivo uso ricorrendo anche provvedimenti coercitivi e a sanzioni disciplinari laddove il dipendente omettesse di farne uso.
2) Prevenzione informativa intesa non solo come obbligo di informare e formare il lavoratore sui rischi e sulle misure da adottare ma anche come obbligo del datore di lavoro di informarsi, aggiornarsi o comunque ricorrere a esperti in materia adoperando la dovuta diligenza nella loro scelta.
3) Prevenzione secondaria che si realizza attraverso la prevenzione sanitaria.
Le obiezioni difensive non tengono conto del fatto che i valori-limite della polveri aereodisperse vanno intesi come semplici soglie di allarme il cui superamento comporta l'avvio di un'ulteriore e complementare attività di prevenzione soggettiva, articolata su un complesso e graduale programma di informazioni, controlli e fornitura di mezzi personali di protezione diretto a limitare la durata dell'esposizione degli addetti alle fonti di pericolo.
Le obiezioni difensive non tengono, infine, contro di quanto la giurisprudenza ha chiarito in ordine alla prevedibilità dell'evento. E vero che le cautele normativamente previste sarebbero state predisposte per evitare il rischio di asbestosi e non il rischio di mesotelioma tuttavia la giurisprudenza ha avuto modo di rilevare che la prevedibilità dell'evento non riguarda solo le specifiche conseguenze dannose che possono derivare da una certa condotta ma si riferiscono a tutte le conseguenze dannose che possono derivare da una condotta conosciuta come pericolosa per la salute. L'inalazione di polveri di amianto è da sempre ritenuta grandemente lesiva per la salute (se ne parla anche nel R.D. 442/1909 in tema di lavori insalubri per donne e fanciulli): l'asbestosi. conosciuta sin dai primi del novecento e inserita nelle malattie professionali dalla L. 455/43, è ritenuta conseguenza diretta potenzialmente mortale e certamente produttrice di una significativa abbreviazione della vita non foss'altro per le patologie respiratorie e cardiocircolatorie ad esse correlate. La mancata eliminazione o riduzione significativa della fonte di assunzione comporta, quindi, il rischio del tutto prevedibile dell'insorgere di una malattia gravemente lesiva della salute dei lavoratori adibiti. Se altre conseguenze di particolare lesività sono state conosciute solo successivamente ciò non esclude il rapporto di causalità con l'evento e la prevedibilità dell'evento medesimo e ciò perché le misure di prevenzione da adottare per l'insorgenza della malattia sconosciuta erano identiche a quelle richieste per eliminare o ridurre gli altri rischi conosciuti. La mancata adozione di "quelle" misure ha cagionato l'evento e l'evento era prevedibile poiché erano conosciute le conseguenze potenzialmente letali della mancata adozione di quelle misure (v. tra le tante Cass. sez IV Camposano; n. 988/2002; sez IV 6.12.1990. Bonetti). L'assunto, poi, secondo il quale contro il mesotelioma non vi era alcuna misura efficace che poteva essere adottata dall'azienda tanto è vero che l'unico approdo legislativo fu il divieto dell'uso dell'amianto con la L. 257/92, non tiene conto di quanto la giurisprudenza ha avuto modo, a più riprese di evidenziare:  "in tema di causalità nei reati omissivi l'agente risponde dell'evento provocato con la sua condotta colposa ... anche se è destinato a prodursi ugualmente, escludendosi la responsabilità soltanto per il caso in cui detto evento si sarebbe comunque verificato in relazione al medesimo processo causale, nei medesimi tempi e con la stessa gravità o intensità, poiché in tal caso dovrebbe ritenersi che l'evento imputato all'agente non era evitabile" (Cass. Sez IV 28782/11).
Dalla espletata istruttoria e da quanto sopra esposto è. dunque, rimasto provato che: S. Eliana ha lavorato per oltre trent'anni a diretto contatto con polveri di amianto (dal 1962 al 1985). Nel 2003 le è stato diagnosticato mesotelioma pleurico maligno epiteliomorfo e il 28 ottobre 2005 la S. è deceduta.
Il mesotelioma pleurico è patologia monofattoriale unanimemente ricondotta alle inalazioni di fibre di amianto e la contrazione della malattia S. Eliana è collocabile negli anni 66/67 (come ha evidenziato anche il consulente della difesa), periodo nel quale la donna già lavorava presso la ditta dell'imputato.
Le rilevazioni ambientali e le deposizioni testimoniali assunte danno conto del fatto che la situazione ambientale all'interno della ditta dell'imputato non fosse in linea con il quadro normativo e giurisprudenziale poiché, come si è esposto sopra, le indagini ispettive hanno rilevato la presenza di polveri, l'inidoneità del sistema aspirante, l'inidoneità del sistema di pulizia dei pavimenti delle macchine, la necessità che i dipendenti fossero dotati di mascherine, grembiuli a perdere, copricapo, la necessità che i pasti venissero consumati in appositi locali, la necessità che gli indumenti venissero lavati in ditta e non a casa.
Le fatture di acquisto prodotte dalla difesa e relative all'acquisto di respiratori antipolvere e di armadietti negli anni 68 e 69 danno conto di acquisti del tutto insufficienti rispetto a quanto richiesto dalla normativa vigente e in ogni caso, come si è detto sopra, i testimoni hanno riferito dell'assenza di tali dispositivi di sicurezza almeno sino agli anni 80, segno evidente che anche laddove respiratori antipolvere o armadietti fossero stati acquistati, il datore di lavoro non si è adoperato per esigerne l'effettivo utilizzo da parte dei propri dipendenti. Le ulteriori fatture di acquisto hanno ad oggetto una motospazzatrice, due lavatrici, un impianto aspirazione polveri, un impianto aprisacco che sono stati acquistati negli anni successivi (73,79.80 e 81), a dimostrazione del fatto che quando la S. prestava la sua attività lavorativa, almeno nei primi anni, tali mezzi erano del tutto carenti e, in ogni caso insufficienti, come peraltro evidenziato dagli organi ispettivi.
Nessuna rilevanza riveste la concentrazione di fibre di amianto nell'aria poiché, anche laddove non fosse stato raggiunto il valore soglia, "il titolare della posizione di garanzia non poteva dirsi esonerato da ogni possibile ulteriore attività di prevenzione stante che il limite in parola costituiva solo una mera soglia di allarme" (Cass. Sez IV 38891/10). L'assenza dì protezione individuali quali maschere, indumenti usa e getta, aspiratori, efficaci sistemi di abbattimento delle polveri almeno sino alla metà degli anni 80 è rimasta pienamente provata (dep. C., DM., L. e rilevazioni ambientali). Il mesotelioma è, come si è detto sopra, malattia dose dipendente e non si può affermare l'esistenza di una soglia quantitativa al di sotto della quale il rischio venga escluso. Non assume decisivo rilievo l'individuazione dell'esatto momento di insorgenza della patologia dovendosi reputare prevedibile che la condotta doverosa avrebbe potuto incidere positivamente anche solo sul suo tempo di latenza. Esiste dunque nesso causale tra la mancata adozione delle cautele doverose e la malattia contratta, a causa delle mansioni svolte, da S. Eliana (in termini Cass. 22165/08). Quanto all'elemento psicologico, si è evidenziato sopra come fosse conoscenza comune, maturata in epoche anche lontano nei tempo, che l'ingestione per via aerea di fibre. particelle e polveri costituisse pericolo per la salute; che da oltre un secolo si ha la diffusa e piena consapevolezza della pericolosità specifica dell'assunzione delle microfibre di amianto; che la pericolosità della lavorazione dell'amianto era ben nota così come può dirsi circostanza prevedibile il fatto che il contatto con le polveri d'amianto ha nefaste conseguenze sulla salute. Si è visto sopra come l'evento — contrazione del mesotelioma - fosse evenienza del tutto prevedibile poiché l'aspirazione di polvere di asbesto è condizione che dà vita ad una situazione di danno e ciò basta ai fini del giudizio di prevedibilità che non implica anche una rappresentazione ex ante dell'evento dannoso quale si è concretamente verificato in tutta la sua gravità ed estensione.
Va altresì, rilevato che l'entrata in vigore della L. 257/92, con la quale è stata definitivamente vietata la lavorazione dell'amianto, non segna il momento iniziale nel quale si ebbe consapevolezza della pericolosità della lavorazione dell'amianto. "Al contrario rappresenta l'epilogo di un lungo percorso che, come si è visto, da tempo, aveva dimostrato la specifica elevata pericolosità dell'amianto'".
Il datore di lavoro avrebbe dovuto, atteso l'esercizio di una attività indubbiamente pericolosa, approntare ogni possibile cautela, dalla più semplice alla più complessa e, ove fossero state approntate tutte le cautele del caso "fino a giungere a rinunciare a certi tipi di lavorazione o di impiego preferendo altre modalità o altri materiali anch'essi più costosi" - come ha evidenziato cass. 33311/12) - l'evento in contestazione non si sarebbe verificato con le stesse modalità dal momento che "se fossero stati attuati interventi di bonifica ambientale e di protezione individuale dei lavoratori, la dose espositiva all'amianto della signora S. sarebbe stata più limitata, ciò in relazione sia alla minore quantità cumulativa di fibre inalate, sia per le maggiori possibilità di rimozione delle fibre dal polmone" (v. ctu in atti). Se a ciò si fosse provveduto forse l'insorgenza clinica della malattia non sarebbe stata evitata ma si sarebbe potuto allungare il periodo di latenza con conseguente aumento degli anni di vita per S. Eliana.
Sulla base di tutto quanto sopra esposto deve essere affermata la penale responsabilità dell'imputato in ordine al reato allo stesso ascritto.
L. Mirco è senz'altro meritevole di generiche attenuanti in giudizio di prevalenza sulla contestata aggravante: l'imputato ha provveduto, prima del giudizio, a risarcire una delle due parti civili costituite. S. Ada; l'istruttoria ha dato conto del fatto che l'imputato, pur non dotando i propri dipendenti dei necessari strumenti di protezione e non verificandone l'effettivo utilizzo, non è rimasto del tutto indifferente alle problematiche relative all'utilizzo dell'amianto arrivando spontaneamente a dismettere l'uso del cd. amianto blu prima dell'entrata in vigore della legge che ha proibito l'utilizzo dell'amianto in genere: l'imputato è privo di precedenti penali.
La pena che si giudica equo irrogare è quella di anni uno di reclusione (p.b. anni uno e mesi sei ridotta ex art. 62 bis c.p. ad anni uno).
Sussistono i presupposti per dichiarare la pena condizionatamente sospesa, beneficio che prevale sulla causa di estinzione della pena - v. S.U. 36837/10 - (in ipotesi applicabile al caso dì specie trattandosi di fatto anteriore al maggio 2006). La difesa dell'imputato ha chiesto in via subordinata la declaratoria di estinzione del reato per prescrizione. Si osserva che il reato in contestazione ha un termine di prescrizione massima di sette anni e mesi sei dovendosi applicare il previgente regime prescrizionale senz'altro più favorevole all'imputato che consente il bilanciamento delle circostanze. Il presente procedimento ha subito alcune sospensioni dovute ad impedimento del difensore - dal 6.7.2010 al 21.9.2010 - e all'adesione all'astensione dalle udienze da parte del difensore dell'imputato - dal 19.9.2012 al 26.11.2012 -.
S. Eliana è deceduta il 28.10.2005. Al termine di prescrizione massimo di anni sette e mesi sei (28.8.2013) va aggiunto il periodo di sospensione dovuto alla causa estintiva.
L. Mirco va condannato al risarcimento del danno in favore della parte civile INAIL che si liquidano in via definitiva in euro 64.041.41 pari alla somma erogata ai sensi del dpr 1124/65 e successivo D.Lvo 38/00 così come documentato, oltre alla rifusione delle spese di costituzione e assistenza nella liquidazione di cui al dispositivo.
La difesa dell'imputato ha eccepito la prescrizione del diritto risarcitorio da parte di INAIL dal momento che S. Eliana è morta il 28.10.2005: il ricovero è datato 27.8.2003; la diagnosi di mesotelioma è stata fatta il 20.9.2003: poiché "il termine di prescrizione decorre dal momento in cui è stata raggiunta la certezza della malattia e della sua origine professionale" e "il decreto di citazione a giudizio del responsabile civile è stato notificato solo nell'aprile 2011.
Sul punto si osserva che a norma dell'art. 112 T.U. 1124/65 l'azione di regresso di cui all'art. 11 si prescrive in ogni caso nel termine di tre anni dal ai orno nel quale la sentenza penale e' divenuta irrevocabile.

P.Q.M.

visti gli artt. 533. 535 c.p.p.
dichiara L. Mirco responsabile del reato ascritto e con generiche attenuanti prevalenti sull'aggravante lo condanna alla pena di anni uno di reclusione oltre al pagamento delle spese processuali.
Pena sospesa.
Condanna l'imputato al risarcimento dei danni in favore della parte civile INAIL che liquida in via definiva in euro 64.041.42 oltre interessi legali.
Condanna l'imputato alla rifusione delle spese in favore della costituita parte civile INAIL che liquida in euro 6810,00 oltre accessori di legge.
Indica il termine per la motivazione in giorni 90.
Reggio Emilia. 29.7.2013
Depositato in Cancelleria il 28 ottobre 2013